Maggio 13, 2024
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Dopo il diamante le pietre che più di tutte associamo all’arte orafa, che ci aspettiamo più di altre di vedere incastonate in un gioiello e che automaticamente evocano in noi l’idea di “preziosità” sono, senza alcun dubbio, il rubino, lo zaffiro e lo smeraldo.
Sono queste (sempre insieme a “sua maestà” il diamante) che la fanno da padrone nelle vetrine delle gioiellerie di tutto il mondo.
Non è quindi un caso che in tutti i trattati di gemmologia vengano definite, (più chiaro di così) “The big three”.
Il loro colore diventa spesso sinonimo di se stesso. Infatti in natura, in pittura ed in letteratura ma anche nel nostro semplice quotidiano si parla di “rosso rubino”, di “blu zaffiro” o “verde smeraldo” qualora si voglia sottolineare l’intensità di un tramonto, la pura bellezza del mare o la vivida intensità d’un prato.
Il rubino e lo zaffiro sono rispettivamente la varietà rossa e blu del corindone mentre lo smeraldo è la varietà verde di un altro minerale, il berillo, le cui varietà blu e rossa, lo diciamo tanto per divagare, sono la conosciutissima acquamarina e la decisamente meno nota bixbite. Il corindone è un minerale allocromatico ( come d’altronde anche il berillo) che in termini più semplici significa che il suo colore e dovuto ad elementi chimici esterni. Nella fattispecie il rubino il suo colore lo deve alla presenza del cromo.
Ognuna delle “tre grandi” merita un capitolo a se e noi cominceremo appunto col rubino (dal latino rubrum), una pietra che preziosa lo è da sempre ed il cui colore, specie ai suoi massimi gradi di tono e saturazione, si può dire dotato d’una attrazione quasi magnetica.
Piccola curiosità. Ora non è più così ma è stata la pietra maschile per eccellenza, simbolo di forza fisica e dignità regale. Nell’ India dei Moghul, per fare un esempio, lo si poteva trovare incastonato sull’elsa o sul fodero d’una spada, nel centro del turbante di un maharaja o cucito sulle sue vesti ma difficilmente un rubino lo si vedeva su di un anello o una collana, al dito o al collo d’una principessa.
Facciamoci un giro per il mondo. I rubini più belli e di maggior pregio provenivano e in parte ancora provengono dallo stato del Myanmar (ex Birmania) ed esattamente dalla miniera di Mogok proprio dove, non a caso, lo scrittore J. Kessel ha ambientato il suo bellissimo libro “La valle dei rubini”. Rubini bellissimi, di alta qualità (anche se non all’altezza di quelli di Mogok) provengono attualmente dalla zona dello Tsavo in Kenia. Una discreta quantità di rubini ( ma di media qualità) viene invece estratta in Pakistan, precisamente nella valle degli Hunza, al confine col Kashmir.
Qualche volta, anche se sempre più di rado, rubini di eccezionale bellezza vengono estratti nello Sri Lanka dove la qualità media è pur sempre buona con pietre che molto spesso presentano una caratteristica tendenza al rosa.
Al giorno d’oggi la maggior parte dei rubini di buona qualità e meno inclusi provengono dalla Thailandia anche se c’è da dire che spesso questi ultimi presentano una eccessiva tendenza al viola. In India, dove pure la qualità media è bassa, è più frequente che altrove imbattersi nello “star ruby”, rubino dallo spiccato asterismo che viene quasi sempre tagliato “a cabochon” in modo tale da far risaltare al meglio la caratteristica stella a sei punte.
Gli aspetti principali e distintivi del rubino sono soprattutto il suo spiccato pleocroismo ovvero, nelle gemme, la presenza di un colore secondario; poi l’effetto seta, quando c’è, e la notevole lucentezza che può essere ulteriormente stimolata se viene posto sotto una normale lampada ad incandescenza ed infine, cosa più importante, dalla luce solare diretta ricca, com’è noto, di raggi ultravioletti.
Sono queste le principali caratteristiche che permettono all’esperto, già a prima vista, di distinguerlo da pietre che potrebbero essere confuse con esso come qualche spinello dalla particolare lucentezza che però non ha pleocroismo non essendo birifrangente, da taluni granati rossi che però non si ravvivano sotto luce diretta o dalla rubellite (la varietà rossa della tormalina) che però solo molto raramente presenta un rosso altrettanto vivace come quello del rubino.
Nei tempi passati la faccenda è stata più complicata. Fino a tutto l’ottocento e anche ben oltre, causa le lacune della tecnologia gemmologica di quei tempi, l’assenza di una adeguata codificazione delle pietre preziose in generale o anche semplicemente una più o meno voluta confusione della terminologia commerciale hanno fatto sì che commercianti con pochi scrupoli si approfittassero di incauti acquirenti. Una miriade di comuni granati piropi, ovvero rosso, sono stati scambiati e commercializzati come rubini autentici con l’esotica denominazione di “rubini del Capo”.
Miglia e migliaia di rubelliti pur avendo questa una durezza sensibilmente inferiore a quella del corindone ( 7,5 rispetto a 9 nella scala Mohs ) sono salite improvvisamente di grado e ovviamente di costo aggrappate all’improbabile definizione di “rubino siberiano”.
E che cosa dire poi del “rubino balascio”, in realtà nient’altro che uno spinello, per tantissimo tempo equiparato al rubino e venduto come tale, in pratica come fosse la stessa pietra e come testimonia l’ormai arcinota storia del “rubino del principe nero” posta sulla corona britannica ( proprio sopra il Cullinan II , uno dei diamanti più noti e grandi esistenti ) che appartiene ai sovrani inglesi fin dal XIV secolo e che solo in tempi recenti si è scoperto trattarsi nient’altro che di un semplice spinello pur se molto bello e del ragguardevole peso ( ma questo già si sapeva ) di 170 carati.
Un discorso a parte meriterebbe la sua sintesi ovvero la creazione in laboratorio del rubino.
Argomento vasto e comune per altro a tutte le pietre preziose che tratteremo in uno dei prossimi blog.
Per quanto riguarda il rubino sintetico qui diciamo solo di Auguste Verneuil. Non il primo ad occuparsene, in quanto già precedentemente c’erano stati già altri tentativi, ma il primo, questo avvenne tra la fine dell’800 e gli inizi del 900, ad ottenere un notevole successo commerciale.
Com’è facile immaginare questo creò una grande confusione nel mercato ed il prezzo dei rubini calò drasticamente e tale rimase per più di un decennio.
Oggi, grazie anche alle attuali attrezzature gemmologiche, qualsiasi gioielliere affidabile, spesso anche solo con l’ausilio di un buon microscopio, riesce a darvi la certezza che un rubino sia naturale o meno.
L’’esasperante ricerca, fin dall’antichità, di imitazioni più o meno fedeli del rubino è dovuta al suo alto valore a sua volta derivante in larga misura ( parliamo ovviamente di rubini di qualità) da una estrema rarità difficilmente riscontrabile nelle altre gemme, diamante compreso. Oggi, come non mai, il suo valore è perennemente in crescita. Per belle pietre dai tre ai cinque carati con un bel colore e buona trasparenza, di solito di provenienza birmana, il suo valore è spesso uguale se non superiore ad un diamante di pari caratteristiche. C’è un'altra importante considerazione da fare strettamente legata al valore dei rubini. Non è improbabile vedere, nelle vetrine delle gioiellerie più esclusive zaffiri, smeraldi e anche diamanti che superano tranquillamente i dieci carati così come vi sono nelle grandi collezioni e nei musei, incastonati su scettri e corone, le stesse pietre che superano abbondantemente i cento carati, mentre invece al contrario, in tutto il mondo i rubini di qualità gemma che superano i dieci carati non sono che più di qualche decina.
Come si usa dire si contano sulle dita delle mani.
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